Perché alla fine si torna, sempre.
Nel mio caso si torna per andarsene di nuovo, ma tant'è.
Mi lascio Santiago alle spalle perduta nel suo Natale che non vedrò mai, e con la valigia di cartone (ma anche no) mi lancio in un fantastico volo dell'Iberia che dalla Galizia mi scarica a Madrid e da Madrid mi catapulta verso Roma.
Non prima di avermi fatto subire tre ore e mezzo di ritardo, claro.
Arrivato all'aeroporto della capitale spagnola vedo la mia condanna sui monitor e mi rassegno a passare il pomeriggio lì. Vado addirittura da McDonald's ("tanto nessuno ti vede", penso, "puoi darti ai grassi saturi e anche mangiare il McFlurry con gli Oreo smacinatidentro, alla faccia dei NoGlobal"); poi l'altoparlante mi dice che il ritardo è meno ritardato, e quindi devo correre. Colpisco con la 24 ore una vecchietta indifesa (lo so che la 24 ore suona come una cosa molto figa, ma quando insieme al computer la riempi con mutande sporche che non sai dove mettere altrimenti, credetemi non lo è più) e corro come Forrest verso il gate dove un signore molto fine con un tatuaggio in faccia alla Tyson sta litigando con l'hostess sfatta che vorrebbe solo andarsene a casa.
Arrivo in una Roma devastata dalla Natura matrigna, dove il Tevere sembra un fiume sulle montagne di qualche stato americano con la doppiavvù. Quando faccio il biglietto per la stazione Termini lo chiedo in spagnolo, e rendendomene conto penso ai miei amici che mi danno del ridicolo. E anche al mio cervello lost in translation. Vivo le mie prime 48 ore sospeso nel vuoto, tutto sembra familiare ma le cose sono irrimediabilmente alterate. Hanno perso di senso, sconvolto i propri ruoli.
Rivedo amici e famiglia e mi accorgo che sì, mi sono mancati tanto. Ma i posti e la gente che li popola, quelli forse no. E' quello che dico a Maria Laura pochi secondi prima che un gentiluomo risponda al cellulare con uno "oèèèè!! stamm' miezz' a piazz', annanz' 'a fOOOntan'". So ancora guidare la macchina e continuo a non saper parcheggiare. L'albero in piazza a Sorrento è sempre magnifico, ma le luci sul corso mi danno un senso di ansia e soffocamento.
Forse è vero che siamo cambiati, o forse è solo un inganno del mio cervello fottuto che alla domanda cosavuoipercena risponde a mi me da igual.
Nel mio caso si torna per andarsene di nuovo, ma tant'è.
Mi lascio Santiago alle spalle perduta nel suo Natale che non vedrò mai, e con la valigia di cartone (ma anche no) mi lancio in un fantastico volo dell'Iberia che dalla Galizia mi scarica a Madrid e da Madrid mi catapulta verso Roma.
Non prima di avermi fatto subire tre ore e mezzo di ritardo, claro.
Arrivato all'aeroporto della capitale spagnola vedo la mia condanna sui monitor e mi rassegno a passare il pomeriggio lì. Vado addirittura da McDonald's ("tanto nessuno ti vede", penso, "puoi darti ai grassi saturi e anche mangiare il McFlurry con gli Oreo smacinatidentro, alla faccia dei NoGlobal"); poi l'altoparlante mi dice che il ritardo è meno ritardato, e quindi devo correre. Colpisco con la 24 ore una vecchietta indifesa (lo so che la 24 ore suona come una cosa molto figa, ma quando insieme al computer la riempi con mutande sporche che non sai dove mettere altrimenti, credetemi non lo è più) e corro come Forrest verso il gate dove un signore molto fine con un tatuaggio in faccia alla Tyson sta litigando con l'hostess sfatta che vorrebbe solo andarsene a casa.
Arrivo in una Roma devastata dalla Natura matrigna, dove il Tevere sembra un fiume sulle montagne di qualche stato americano con la doppiavvù. Quando faccio il biglietto per la stazione Termini lo chiedo in spagnolo, e rendendomene conto penso ai miei amici che mi danno del ridicolo. E anche al mio cervello lost in translation. Vivo le mie prime 48 ore sospeso nel vuoto, tutto sembra familiare ma le cose sono irrimediabilmente alterate. Hanno perso di senso, sconvolto i propri ruoli.
Rivedo amici e famiglia e mi accorgo che sì, mi sono mancati tanto. Ma i posti e la gente che li popola, quelli forse no. E' quello che dico a Maria Laura pochi secondi prima che un gentiluomo risponda al cellulare con uno "oèèèè!! stamm' miezz' a piazz', annanz' 'a fOOOntan'". So ancora guidare la macchina e continuo a non saper parcheggiare. L'albero in piazza a Sorrento è sempre magnifico, ma le luci sul corso mi danno un senso di ansia e soffocamento.
Forse è vero che siamo cambiati, o forse è solo un inganno del mio cervello fottuto che alla domanda cosavuoipercena risponde a mi me da igual.